Mi sono molto divertito alla lettura di un passo di questo libro. Il problema è che l'ho trovato a pagina 279 e il divertente sta, a mio gusto, nell'assurdità della situazione, che temo non sia stata percepita dall'autrice.
La storia è un sequel di Orgoglio e pregiudizio, e narra le vicende dei Darcy dal punto in cui Jane Austen le aveva lasciate nel suo romanzo ben più famoso e degno di memoria. Si presentano immediatamente alcuni problemi, il più grosso dei quali è che la Bebris non solo non è la Austen ma non è neppure una scrittrice di buon livello. Si vede che ha fatto una certa gavetta (*) ma si vede anche che non aveva nulla da dire nella scrittura di questo romanzo.
Tra l'altro, mi pare perdente in partenza la strategia della Bebris di scrivere come se fosse un falso d'epoca, per l'ovvio motivo che lei, americana contemporanea, non ne ha la capacità. Non basta essere socia attiva della Jane Austen Society of North America e aver fatto diversi viaggi in Inghilterra (**) per poterlo fare. Più astuto sarebbe stato usare il trucco manzoniano del manoscritto ritrovato per spiegare la distanza di stile e permettere di commentare in modo sensato passaggi che ad un nativo del tempo sarebbero stati così naturali da non richiedere spiegazioni.
Non mi stupirebbe se il pubblico di riferimento fosse disposto a chiudere un occhio su questo problema. Si tratta infatti di lettori (***) che hanno già letto tutto più volte della Austen e sono disposti ad accettare prodotti simili, anche se molto inferiori, per intervallare una rilettura alla successiva. Invece mi sorprende di più che non vi sia stata una specie di rivolta popolare in seguito alla variazione del carattere dei personaggi principali.
Credo infatti che la Bebris non avesse idea di cosa poter scrivere sulla vita coniugare dei Darcy per mancanza di interesse nel tema. Ha così deciso di sparare i personaggi austeniani in un racconto più nelle sue corde. Che non è, ahinoi, niente di buono. Il buon Darcy viene così convertito in una specie di emulo di Sherlock Holmes, incapacitato a raggiungere il suo modello per evidenti limiti nell'osservare e nell'indurre qualcosa di valido. Lizzy, fresca signora Darcy, assume venature paranormali, sente le voci, vede e fa cose che agli altri sono precluse, insomma, una pazza.
La narrativa sentimentale viene così adattata per seguire, piuttosto blandamente invero, i canoni di una investigazione vagamente in uno stile Sherlockiano. Lentamente ma inesorabilmente vengono inseriti elementi occultistici, spiritisti, fino a giungere ad un finale che sembra estratto non so bene se da Il signore degli anelli o dalla saga di Harry Potter.
Non penso che la Bebris avesse intenzione di fare un qualsiasi punto con questo romanzo (°), quello che ho ricavato dalla lettura è una rivisitazione in chiave sbarellata dell'idea austeniana della non contrapposizione ma completamento tra ragione e sentimento. Qui, infatti, Elizabeth contrappone alle ragioni della testa non quelle del cuore, quanto quelle di insondabili energie new age.
(*) Dal risvolto di copertina si evince che prima di questo colpo fortunato ha scritto su giornali, insegnato inglese, e fatto l'editor per una collana fantasy.
(**) Anche queste notizie riportate nel risvolto di copertina.
(***) O per meglio dire lettrici, visto che la Austen ha un successo molto più marcato nel campo femminile.
(°) Oltre agli aspetti prettamente commerciali, intendo.
Risposta Sbagliata
giovedì 29 giugno 2017
martedì 11 aprile 2017
I bastardi di Pizzofalcone - Maurizio De Giovanni (2013)
Mia prima lettura di qualcosa firmato da questo autore. Sequel de Il metodo del coccodrillo (*), in cui viene introdotto il personaggio dell'ispettore Lojacono che qui si prende il posto da protagonista all'interno di un eterogeneo gruppo di strambi poliziotti.
L'evidente idea dell'autore è quella di puntare alla letteratura seriale in stile 87° distretto (**) con uno stile di scrittura facilmente trasponibile anche nella serialità televisiva. Come in effetti è successo.
Prima dell'inizio della storia, il commissariato napoletano di Pizzofalcone viene portato sull'orlo della chiusura da comportamenti poco ortodossi di alcuni suoi elementi (***). Un commissario capo, Luigi Palma, decide di giocare d'azzardo con la sua carriera e accettare la sfida di far riprendere quota a quella sede disagiata, su cui vengono fatti convergere, tanto per non farci mancare niente, gli scarti di tutti gli altri commissariati cittadini.
Palma si butta in questa situazione balenga anche perché conta molto su Lojacono, che ha visto in azione nel prequel, sa che ha una pessima nomea, ma da cui si aspetta faville. Che prontamente arrivano.
Il caso principale trattato nel libro è quella di una facoltosa signora, Cecilia de Santis, che viene uccisa con un colpo di boule de neige alla testa. Considerando che ella era una accanita collezionista delle suddette brutture, verrebbe da concedere almeno parziali attenuanti a chi l'ha fatta fuori. Il problema è capire chi sia stato costui. L'indiziato principale è ovviamente il marito, un parvenu, traditore abituale, disegnato anche in modo da renderlo persino più antipatico di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Ma non sarà una soluzione troppo facile?
Ci sono poi un altro paio di casi che servono più che altro ad aumentare la dose di colore locale. Uno si conclude lasciando un pugno di mosche in mano agli investigatori, l'altro sembra promettere sviluppi interessanti (°) nei prossimi episodi della serie.
Scrittura molto scorrevole, simpatica ambientazione che non scade nel macchiettistico. Non ho perso tempo a cercare di capire chi fosse il colpevole, ma credo che, impegnandosi, il lettore possa arrivare a capirlo anche prima del Lojacono. Il caso non è, a mio avviso, tra i più ragionevoli, ma è tutto sommato accettabile.
Ci sono alcuni punti negativi, che però non sono tali da spingermi a sconsigliare la lettura. In particolare, pur essendo complessivamente ben narrato, i dialoghi mi hanno fatto più volte cadere le braccia. Troppo lunghi, troppo esplicativi, poco calzanti con l'immagine del personaggio.
Lo spiegone finale tende al terribile. Troppo lungo, presentato come confessione di chi ha compiuto l'atto, mi ha annoiato. Meglio sarebbe stato farci seguire, almeno parzialmente, la parte finale dell'indagine in cui si scoprivano i dettagli che confermano a Lojacono la sua ipotesi.
Mi ha lasciato qualche dubbio anche la composizione della squadra di Pizzofalcone. In teoria dovrebbe trattarsi della feccia della polizia napoletana, in pratica si tratta di personaggi piuttosto peculiari, magari anche spiacevoli da avere come colleghi, ma non sono poi così male. Strano che non ci sia tra di loro nemmeno un soggetto veramente insopportabile.
Simpatico il finale, un colpo di scena che poco ha che fare con le indagini ma che mi ha fatto ridere di gusto.
(*) Ripetutamente citato nel corso dell'azione, quasi come se il De Giovanni approfitti dello spazio per pubblicizzare il suo lavoro precedente.
(**) Ed McBain viene giustamente indicato dalle fonti di riferimento nelle note dell'autore.
(***) La premessa è la parte meno credibile di tutta la storia. Spero che il De Giovanni abbia avuto modo nei sequel di buttar lì che questo fosse solo un pretesto. Ci vedrei bene, che so, magari una qualche squallida lotta intestina tra commissariati cittadini.
(°) Anche se in realtà non mi sembra avere abbastanza forza per ambire a diventare un futuro caso principale.
L'evidente idea dell'autore è quella di puntare alla letteratura seriale in stile 87° distretto (**) con uno stile di scrittura facilmente trasponibile anche nella serialità televisiva. Come in effetti è successo.
Prima dell'inizio della storia, il commissariato napoletano di Pizzofalcone viene portato sull'orlo della chiusura da comportamenti poco ortodossi di alcuni suoi elementi (***). Un commissario capo, Luigi Palma, decide di giocare d'azzardo con la sua carriera e accettare la sfida di far riprendere quota a quella sede disagiata, su cui vengono fatti convergere, tanto per non farci mancare niente, gli scarti di tutti gli altri commissariati cittadini.
Palma si butta in questa situazione balenga anche perché conta molto su Lojacono, che ha visto in azione nel prequel, sa che ha una pessima nomea, ma da cui si aspetta faville. Che prontamente arrivano.
Il caso principale trattato nel libro è quella di una facoltosa signora, Cecilia de Santis, che viene uccisa con un colpo di boule de neige alla testa. Considerando che ella era una accanita collezionista delle suddette brutture, verrebbe da concedere almeno parziali attenuanti a chi l'ha fatta fuori. Il problema è capire chi sia stato costui. L'indiziato principale è ovviamente il marito, un parvenu, traditore abituale, disegnato anche in modo da renderlo persino più antipatico di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Ma non sarà una soluzione troppo facile?
Ci sono poi un altro paio di casi che servono più che altro ad aumentare la dose di colore locale. Uno si conclude lasciando un pugno di mosche in mano agli investigatori, l'altro sembra promettere sviluppi interessanti (°) nei prossimi episodi della serie.
Scrittura molto scorrevole, simpatica ambientazione che non scade nel macchiettistico. Non ho perso tempo a cercare di capire chi fosse il colpevole, ma credo che, impegnandosi, il lettore possa arrivare a capirlo anche prima del Lojacono. Il caso non è, a mio avviso, tra i più ragionevoli, ma è tutto sommato accettabile.
Ci sono alcuni punti negativi, che però non sono tali da spingermi a sconsigliare la lettura. In particolare, pur essendo complessivamente ben narrato, i dialoghi mi hanno fatto più volte cadere le braccia. Troppo lunghi, troppo esplicativi, poco calzanti con l'immagine del personaggio.
Lo spiegone finale tende al terribile. Troppo lungo, presentato come confessione di chi ha compiuto l'atto, mi ha annoiato. Meglio sarebbe stato farci seguire, almeno parzialmente, la parte finale dell'indagine in cui si scoprivano i dettagli che confermano a Lojacono la sua ipotesi.
Mi ha lasciato qualche dubbio anche la composizione della squadra di Pizzofalcone. In teoria dovrebbe trattarsi della feccia della polizia napoletana, in pratica si tratta di personaggi piuttosto peculiari, magari anche spiacevoli da avere come colleghi, ma non sono poi così male. Strano che non ci sia tra di loro nemmeno un soggetto veramente insopportabile.
Simpatico il finale, un colpo di scena che poco ha che fare con le indagini ma che mi ha fatto ridere di gusto.
(*) Ripetutamente citato nel corso dell'azione, quasi come se il De Giovanni approfitti dello spazio per pubblicizzare il suo lavoro precedente.
(**) Ed McBain viene giustamente indicato dalle fonti di riferimento nelle note dell'autore.
(***) La premessa è la parte meno credibile di tutta la storia. Spero che il De Giovanni abbia avuto modo nei sequel di buttar lì che questo fosse solo un pretesto. Ci vedrei bene, che so, magari una qualche squallida lotta intestina tra commissariati cittadini.
(°) Anche se in realtà non mi sembra avere abbastanza forza per ambire a diventare un futuro caso principale.
lunedì 27 febbraio 2017
La Agatha Raisin di M.C. Beaton
Mi sono appena letto il sedicesimo episodio della seria dedicata da M.C. Beaton alla sua provetta investigatrice Agatha Raisin (1992, ...). Non mi ha fatto venire voglia di continuare la lettura. Una mezza curiosità sulla trasposizione televisiva m'è però venuta. Senza però nessun impegno.
Beaton è uno degli pseudonimi usati da Marion Chesney, il cui nome attuale sarebbe Marion Gibbons, ma non usa il cognome del marito per la sua attività di scrittrice, bensì una variante del suo cognome da nubile, McChesney. Prima di leggere Agatha Raisin e il modello di virtù (2005), nulla avevo letto di lei, in nessuna delle sue varianti. Nonostante che la signora, ormai ottantenne, sia piuttosto prolifica.
Pagato il pedaggio alla Christie con il nome della protagonista della serie, lo sviluppo del racconto segue logiche sue, piuttosto divertenti. Abbiamo infatti a che fare con una cinquantenne poco rassegnata all'età non proprio freschissima, che ha lasciato un lavoro londinese ad alta tensione per ritirarsi nella campagna inglese, dove ha abbracciato la professione investigativa, pur essendo decisamente a digiuno delle cose del mestiere.
Purtroppo lo sviluppo dei personaggi lascia a desiderare, tutti piuttosto monodimensionali e dai comportamenti spesso inspiegabili e, quel che peggio, inspiegati.
Avendolo letto nella traduzione italiana di Marina Morpurgo, non sono certo se le perplessità che mi sono nate sull'uso del linguaggio in questo romanzo siano da attribuirsi tutte all'autrice. Credo però che anche la traduttrice abbia le sue responsabilità. Più di una volta ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad una versione troppo precipitosa di un testo inglese.
Di sicuro responsabilità dell'autrice la chiusura dell'indagine, precipitosa e resa con un improponibile doppio spiegone, con elementi della soluzione che vengono ripetuti verbatim pochi paragrafi di distanza.
Questa strana dissonanza tra l'anima della storia, che è tutto sommato piacevole, e la sua narrazione, decisamente sotto standard, e a tratti decisamente indisponente, è la chiave del mio moderato interesse nel vedere come altri potrebbero rendere il racconto, magari usando un altro mezzo.
Beaton è uno degli pseudonimi usati da Marion Chesney, il cui nome attuale sarebbe Marion Gibbons, ma non usa il cognome del marito per la sua attività di scrittrice, bensì una variante del suo cognome da nubile, McChesney. Prima di leggere Agatha Raisin e il modello di virtù (2005), nulla avevo letto di lei, in nessuna delle sue varianti. Nonostante che la signora, ormai ottantenne, sia piuttosto prolifica.
Pagato il pedaggio alla Christie con il nome della protagonista della serie, lo sviluppo del racconto segue logiche sue, piuttosto divertenti. Abbiamo infatti a che fare con una cinquantenne poco rassegnata all'età non proprio freschissima, che ha lasciato un lavoro londinese ad alta tensione per ritirarsi nella campagna inglese, dove ha abbracciato la professione investigativa, pur essendo decisamente a digiuno delle cose del mestiere.
Purtroppo lo sviluppo dei personaggi lascia a desiderare, tutti piuttosto monodimensionali e dai comportamenti spesso inspiegabili e, quel che peggio, inspiegati.
Avendolo letto nella traduzione italiana di Marina Morpurgo, non sono certo se le perplessità che mi sono nate sull'uso del linguaggio in questo romanzo siano da attribuirsi tutte all'autrice. Credo però che anche la traduttrice abbia le sue responsabilità. Più di una volta ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad una versione troppo precipitosa di un testo inglese.
Di sicuro responsabilità dell'autrice la chiusura dell'indagine, precipitosa e resa con un improponibile doppio spiegone, con elementi della soluzione che vengono ripetuti verbatim pochi paragrafi di distanza.
Questa strana dissonanza tra l'anima della storia, che è tutto sommato piacevole, e la sua narrazione, decisamente sotto standard, e a tratti decisamente indisponente, è la chiave del mio moderato interesse nel vedere come altri potrebbero rendere il racconto, magari usando un altro mezzo.
lunedì 21 novembre 2016
L'altro capo del filo - Andrea Camilleri (2016)
L'ho letto qualche tempo fa, ma solo oggi, spinto dalla lettura di quel che ne pensa Marco Il Bibliofilo, mi decido a buttar giù qualche riflessione che mi è venuta dalla lettura dell'ultimo (*) romanzo dedicato al commissario Montalbano.
Prima cosa, per tutto il tempo della lettura ho pensato che Camilleri avrebbe dovuto dare una bella rilettura al testo prima di darlo alle stampe. Dato il suo peso editoriale, non credo che in Sellerio si azzardino a modificare la sua stesura originale. Poi scopro, leggendo le note finali, che questo è il suo primo lavoro da quando ha perso la vista, e che l'opera di scrittura è stata mediata dai suoi collaboratori. Ci sono restato male, però il punto rimane. Mi pare che manchi un equilibrio al racconto, troppo sbilanciato sulla prima parte, che evidentemente tratta un argomento che all'autore sta particolarmente a cuore ma che non è rilevante all'interno della struttura al punto da giustificare l'imponente numero di pagine dedicatogli.
Sono passati molti anni dal precedente Montalbano che ho letto, e questo mi ha fatto venire il dubbio se lo stile di Camilleri sia cambiato nel tempo, se la mediazione del suo team abbia influito sul risultato, o se sia stato il mio gusto per la lettura che abbia preso strade diverse. Fatto sta che, pur riconoscendo l'atmosfera vigatese con tutti i soliti personaggi che la popolano, mi sono chiesto più volte se non fosse cambiato qualcosa di sostanziale in questi anni che però non sono riuscito ad identificare.
Visto dal punto di vista puramente giallo, il romanzo consta di due casi che hanno ben poco in comune. Nel primo Montalbano indaga su di uno stupro avvenuto in mare, che viene risolto grazie alla sua capacità di osservazione. Il secondo è invece relativo ad un bell'efferato omicidio (**) su di persona con cui il Montalbano aveva appena stabilito un'amicizia che sembrava destinata a diventare profonda. Che poi è una delle regole del gioco, mai diventare amici del protagonista di una serie gialla, le possibilità di schiattare in modo orribile aumentano incredibilmente.
La morta è una sarta, e non si capisce chi possa averla uccisa e perché. Le indagini vengono condotte con una approssimazione tale da far rizzare i capelli. Tanto per dirne una, si capisce subito che il mistero sarebbe grandemente semplificato se si facesse richiesta dei tabulati telefoni relativi alle linee, fisse e mobili, della signora. Eppure nessuno fa una mossa in tal senso. Forse perché sono tutti impegnati a gestire il gran traffico di migranti che passa da quelle parti, e la lucidità necessaria per usare la logica se ne è andata a ramengo.
Meno spiegabile mi pare sia l'assassina stessa, che fa trovare al commissario una lettera-spiegone in cui chiarisce tutti i dettagli, molti dei quali sarebbero restati completamente oscuri al commissario e ai lettori. Forse si è voluta levare un peso dalla coscienza, senza però pagare il fio dei suoi peccati? Ma perché farlo quando ancora poteva essere beccata, meglio sarebbe stato sparire e mandare l'incomprensibile missiva una volta che si fosse sentita al sicuro.
Nonostante tutto, l'indagine mantiene un suo bislacco fascino, anche se il commissario sembra sempre più interessato al cibo e sempre meno a tutto il resto. O forse proprio per questo.
(*) Ultimo solo per il momento, ho letto da qualche parte che sarebbero già ben avviati altri due episodi della saga.
(**) "Bello" nel senso di in linea con le aspettative del genere.
Prima cosa, per tutto il tempo della lettura ho pensato che Camilleri avrebbe dovuto dare una bella rilettura al testo prima di darlo alle stampe. Dato il suo peso editoriale, non credo che in Sellerio si azzardino a modificare la sua stesura originale. Poi scopro, leggendo le note finali, che questo è il suo primo lavoro da quando ha perso la vista, e che l'opera di scrittura è stata mediata dai suoi collaboratori. Ci sono restato male, però il punto rimane. Mi pare che manchi un equilibrio al racconto, troppo sbilanciato sulla prima parte, che evidentemente tratta un argomento che all'autore sta particolarmente a cuore ma che non è rilevante all'interno della struttura al punto da giustificare l'imponente numero di pagine dedicatogli.
Sono passati molti anni dal precedente Montalbano che ho letto, e questo mi ha fatto venire il dubbio se lo stile di Camilleri sia cambiato nel tempo, se la mediazione del suo team abbia influito sul risultato, o se sia stato il mio gusto per la lettura che abbia preso strade diverse. Fatto sta che, pur riconoscendo l'atmosfera vigatese con tutti i soliti personaggi che la popolano, mi sono chiesto più volte se non fosse cambiato qualcosa di sostanziale in questi anni che però non sono riuscito ad identificare.
Visto dal punto di vista puramente giallo, il romanzo consta di due casi che hanno ben poco in comune. Nel primo Montalbano indaga su di uno stupro avvenuto in mare, che viene risolto grazie alla sua capacità di osservazione. Il secondo è invece relativo ad un bell'efferato omicidio (**) su di persona con cui il Montalbano aveva appena stabilito un'amicizia che sembrava destinata a diventare profonda. Che poi è una delle regole del gioco, mai diventare amici del protagonista di una serie gialla, le possibilità di schiattare in modo orribile aumentano incredibilmente.
La morta è una sarta, e non si capisce chi possa averla uccisa e perché. Le indagini vengono condotte con una approssimazione tale da far rizzare i capelli. Tanto per dirne una, si capisce subito che il mistero sarebbe grandemente semplificato se si facesse richiesta dei tabulati telefoni relativi alle linee, fisse e mobili, della signora. Eppure nessuno fa una mossa in tal senso. Forse perché sono tutti impegnati a gestire il gran traffico di migranti che passa da quelle parti, e la lucidità necessaria per usare la logica se ne è andata a ramengo.
Meno spiegabile mi pare sia l'assassina stessa, che fa trovare al commissario una lettera-spiegone in cui chiarisce tutti i dettagli, molti dei quali sarebbero restati completamente oscuri al commissario e ai lettori. Forse si è voluta levare un peso dalla coscienza, senza però pagare il fio dei suoi peccati? Ma perché farlo quando ancora poteva essere beccata, meglio sarebbe stato sparire e mandare l'incomprensibile missiva una volta che si fosse sentita al sicuro.
Nonostante tutto, l'indagine mantiene un suo bislacco fascino, anche se il commissario sembra sempre più interessato al cibo e sempre meno a tutto il resto. O forse proprio per questo.
(*) Ultimo solo per il momento, ho letto da qualche parte che sarebbero già ben avviati altri due episodi della saga.
(**) "Bello" nel senso di in linea con le aspettative del genere.
venerdì 19 febbraio 2016
L'imprevedibile piano della scrittrice senza nome
Romanzo di Alice Basso, 2015.
Opera prima, e si vede. Mi dicono che sia un caso di successo dell'editoria italiana dell'anno scorso, e lo vedo meno.
Leggibile, carino, divertente, almeno a tratti. Piuttosto confuso nello sviluppo, come ammette anche l'autrice nell'intervista a se stessa pubblicata a piè di libro. Lei lo mette in positivo, dicendo che ci ha messo dentro tutto quello che le piace. Il problema è che ci sono parti che le vengono meglio, altre meno.
Vani di mestiere fa la ghostwriter, quello che in italiano si chiama(va) negro, ovvero scrive libri per personaggi famosi che non ne hanno tempo, voglia, o capacità, senza metterci il nome. Lo fa come il buon Benjamin Malaussène fa il capro espiatorio secondo Daniel Pennac, ovvero con gran modestia, e come se la sua fosse una occupazione normale. Ha un capo con cui ha una relazione molto conflittuale basata su reciproca stima e disgusto. Nel corso della sua innominabile carriera, la vediamo lavorare solo a libri di gran successo, di materia estremamente disparata. Il primo, un saggio scientifico divulgativo, serve solo per farci capire quanto sia brava e capace di adattarsi. Il secondo, un romanzo di ambientazione americana, le fa incontrare l'uomo che le farà girare la testa e che sarà al centro della trama chick-lit. Il terzo, un saggio paranormale, ha lo scopo di introdurre una trama gialla e il secondo uomo che serve sia per complicare il lato romantico sia per dare più corpo allo sviluppo poliziesco (trattasi infatti di commissario).
Concentrandosi sul terzo lavoro di Vani, eliminando la componente hard-boiled, sviluppando meglio l'ambiente esoterico e tutta la fuffa che si può pensare si annidi da quelle parti si ottiene ... ohibò, Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. E questo da un'idea di quella che penso sia la debolezza fondamentale del romanzo. Troppa roba e trattata di corsa. Non si approfondisce, si corre velocemente su troppi temi, come se si volesse fare un rapido riassuntino per il lettore che non ha tempo di leggere cose più sostanziose.
E nello sviluppo c'è spazio anche per molto altro, ad esempio un crossover con il genere young-adult, grazie al fatto che Vani incontra una ragazzina, Morgana, che è il suo clone, e così viviamo una sorta di flashback con Vani che cerca di modificare quello che sa potrebbe essere il suo futuro.
A mio parere, la parte migliore sta nella narrazione dei dolori della giovane (non più giovanissima, tarda trentina, ma si sa, i tempi di maturazione degli umani nei paesi occidentali si sono ridicolmente allungati) Vani. E deve averlo capito bene anche la Basso, visto che ha scelto di seguire la protagonista lasciandole in uso esclusivo l'io narrante. Questo però va a scapito di tutti gli altri personaggi, che risultano davvero poco sviluppati.
La parte peggiore sono i dialoghi. Improponibili. La gente non parla così. Avrà provato l'autrice a leggere ad alta voce quello che i suoi personaggi dicono? Avrebbe dovuto. Spero, nel suo interesse, che lo faccia per quello che sembra essere l'inevitabile seguito.
Opera prima, e si vede. Mi dicono che sia un caso di successo dell'editoria italiana dell'anno scorso, e lo vedo meno.
Leggibile, carino, divertente, almeno a tratti. Piuttosto confuso nello sviluppo, come ammette anche l'autrice nell'intervista a se stessa pubblicata a piè di libro. Lei lo mette in positivo, dicendo che ci ha messo dentro tutto quello che le piace. Il problema è che ci sono parti che le vengono meglio, altre meno.
Vani di mestiere fa la ghostwriter, quello che in italiano si chiama(va) negro, ovvero scrive libri per personaggi famosi che non ne hanno tempo, voglia, o capacità, senza metterci il nome. Lo fa come il buon Benjamin Malaussène fa il capro espiatorio secondo Daniel Pennac, ovvero con gran modestia, e come se la sua fosse una occupazione normale. Ha un capo con cui ha una relazione molto conflittuale basata su reciproca stima e disgusto. Nel corso della sua innominabile carriera, la vediamo lavorare solo a libri di gran successo, di materia estremamente disparata. Il primo, un saggio scientifico divulgativo, serve solo per farci capire quanto sia brava e capace di adattarsi. Il secondo, un romanzo di ambientazione americana, le fa incontrare l'uomo che le farà girare la testa e che sarà al centro della trama chick-lit. Il terzo, un saggio paranormale, ha lo scopo di introdurre una trama gialla e il secondo uomo che serve sia per complicare il lato romantico sia per dare più corpo allo sviluppo poliziesco (trattasi infatti di commissario).
Concentrandosi sul terzo lavoro di Vani, eliminando la componente hard-boiled, sviluppando meglio l'ambiente esoterico e tutta la fuffa che si può pensare si annidi da quelle parti si ottiene ... ohibò, Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. E questo da un'idea di quella che penso sia la debolezza fondamentale del romanzo. Troppa roba e trattata di corsa. Non si approfondisce, si corre velocemente su troppi temi, come se si volesse fare un rapido riassuntino per il lettore che non ha tempo di leggere cose più sostanziose.
E nello sviluppo c'è spazio anche per molto altro, ad esempio un crossover con il genere young-adult, grazie al fatto che Vani incontra una ragazzina, Morgana, che è il suo clone, e così viviamo una sorta di flashback con Vani che cerca di modificare quello che sa potrebbe essere il suo futuro.
A mio parere, la parte migliore sta nella narrazione dei dolori della giovane (non più giovanissima, tarda trentina, ma si sa, i tempi di maturazione degli umani nei paesi occidentali si sono ridicolmente allungati) Vani. E deve averlo capito bene anche la Basso, visto che ha scelto di seguire la protagonista lasciandole in uso esclusivo l'io narrante. Questo però va a scapito di tutti gli altri personaggi, che risultano davvero poco sviluppati.
La parte peggiore sono i dialoghi. Improponibili. La gente non parla così. Avrà provato l'autrice a leggere ad alta voce quello che i suoi personaggi dicono? Avrebbe dovuto. Spero, nel suo interesse, che lo faccia per quello che sembra essere l'inevitabile seguito.
venerdì 29 gennaio 2016
Best Movie Tag
Marco il Bibliofilo mi ha segnalato per uno di quei giochetti che appestano il web, che però hanno anche il loro risvolto simpatico. In pratica ha citato il mio blog (*) e con questo semplice atto mi ha legato ad una serie di adempimenti.
(1) Inserire il tag, sotto forma di immagine. E questo è facile:
(2) Ringraziare l'inventore del malefico meccanismo, Neogrigio, che ha scatenato il tutto dal suo blog Una vita non basta. E anche qui ce la si cava facilmente.
(3) Indicare cinque film tra quelli visti nel 2015. E questa è già tosta. Me la cavo così:
Interstellar di Christopher Nolan. La prima volta l'ho visto nel 2014, e questo lo escluderebbe dalla selezione, ma un cineforum estivo mi ha dato l'occasione di rivederlo nel 2015. Svariati i temi toccati, tutti molto controversi, come la relazione tra ragione e sentimento. Può la prima fare a meno del secondo? (Spoiler, no.)
Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael. Dio è una brutta persona. Fortuna che ha una figlia che ha compassione per gli umani.
Predestination dei fratelli Spierig. Avrei detto che fosse impossibile portare sullo schermo Tutti voi zombie di Heinlein. E invece.
The imitation game. Benedict Cumberbatch che interpreta Alan Turing. E tanto basti.
Calvario di John Michael McDonagh. L'ultima settimana di vita di un prete cattolico irlandese (Brendan Gleeson), chiamato a pagare per colpe non sue.
Aggiungo come riserva Paddington, un film che penso possa piacere a tutti.
(4) Segnalare altre possibili vittime del giochino. E qui il gioco si fa duro.
Impossibilitato a segnalare il segnalante, pena la creazione di un circolo vizioso che finirebbe per causare la fine dell'internet per come la conosciamo noi oggi, faccio i seguenti nomi:
Nella Crosiglia, per il blog Rock Music Space.
Marco Grande Arbitro, con il blog collettivo GiocoMagazzino!
Cecilia, a.k.a. La Tosca non è per tutti.
Luthien_ab di Ho voglia di cinema.
Tiziana con Di cinema, fiction & ...
Sam Gamgee e il suo Come nei film.
Sailor Fede per Componente instabile.
Federica di Una ciliegia tira l'altra.
And, last but not least, A Gegio film.
(*) Non questo, che non legge nessuno, nemmeno io che, seppur raramente, ci scrivo, ma Cine BlaBla. Posto qui per manie personali. Là pubblico solo in relazione ai film che vedo.
(1) Inserire il tag, sotto forma di immagine. E questo è facile:
(2) Ringraziare l'inventore del malefico meccanismo, Neogrigio, che ha scatenato il tutto dal suo blog Una vita non basta. E anche qui ce la si cava facilmente.
(3) Indicare cinque film tra quelli visti nel 2015. E questa è già tosta. Me la cavo così:
Interstellar di Christopher Nolan. La prima volta l'ho visto nel 2014, e questo lo escluderebbe dalla selezione, ma un cineforum estivo mi ha dato l'occasione di rivederlo nel 2015. Svariati i temi toccati, tutti molto controversi, come la relazione tra ragione e sentimento. Può la prima fare a meno del secondo? (Spoiler, no.)
Dio esiste e vive a Bruxelles di Jaco Van Dormael. Dio è una brutta persona. Fortuna che ha una figlia che ha compassione per gli umani.
Predestination dei fratelli Spierig. Avrei detto che fosse impossibile portare sullo schermo Tutti voi zombie di Heinlein. E invece.
The imitation game. Benedict Cumberbatch che interpreta Alan Turing. E tanto basti.
Calvario di John Michael McDonagh. L'ultima settimana di vita di un prete cattolico irlandese (Brendan Gleeson), chiamato a pagare per colpe non sue.
Aggiungo come riserva Paddington, un film che penso possa piacere a tutti.
(4) Segnalare altre possibili vittime del giochino. E qui il gioco si fa duro.
Impossibilitato a segnalare il segnalante, pena la creazione di un circolo vizioso che finirebbe per causare la fine dell'internet per come la conosciamo noi oggi, faccio i seguenti nomi:
Nella Crosiglia, per il blog Rock Music Space.
Marco Grande Arbitro, con il blog collettivo GiocoMagazzino!
Cecilia, a.k.a. La Tosca non è per tutti.
Luthien_ab di Ho voglia di cinema.
Tiziana con Di cinema, fiction & ...
Sam Gamgee e il suo Come nei film.
Sailor Fede per Componente instabile.
Federica di Una ciliegia tira l'altra.
And, last but not least, A Gegio film.
(*) Non questo, che non legge nessuno, nemmeno io che, seppur raramente, ci scrivo, ma Cine BlaBla. Posto qui per manie personali. Là pubblico solo in relazione ai film che vedo.
sabato 26 settembre 2015
Con tutto il bene che ti voglio
Commedia paradossale di Luciano Lunghi, qui presentata in dialetto lombardo (*).
(*) E sottolineo che ogni possibile riferimento a parole inglesi è casuale e non volutamente imbarazzante.
(*) E sottolineo che ogni possibile riferimento a parole inglesi è casuale e non volutamente imbarazzante.
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