Mi sono molto divertito alla lettura di un passo di questo libro. Il problema è che l'ho trovato a pagina 279 e il divertente sta, a mio gusto, nell'assurdità della situazione, che temo non sia stata percepita dall'autrice.
La storia è un sequel di Orgoglio e pregiudizio, e narra le vicende dei Darcy dal punto in cui Jane Austen le aveva lasciate nel suo romanzo ben più famoso e degno di memoria. Si presentano immediatamente alcuni problemi, il più grosso dei quali è che la Bebris non solo non è la Austen ma non è neppure una scrittrice di buon livello. Si vede che ha fatto una certa gavetta (*) ma si vede anche che non aveva nulla da dire nella scrittura di questo romanzo.
Tra l'altro, mi pare perdente in partenza la strategia della Bebris di scrivere come se fosse un falso d'epoca, per l'ovvio motivo che lei, americana contemporanea, non ne ha la capacità. Non basta essere socia attiva della Jane Austen Society of North America e aver fatto diversi viaggi in Inghilterra (**) per poterlo fare. Più astuto sarebbe stato usare il trucco manzoniano del manoscritto ritrovato per spiegare la distanza di stile e permettere di commentare in modo sensato passaggi che ad un nativo del tempo sarebbero stati così naturali da non richiedere spiegazioni.
Non mi stupirebbe se il pubblico di riferimento fosse disposto a chiudere un occhio su questo problema. Si tratta infatti di lettori (***) che hanno già letto tutto più volte della Austen e sono disposti ad accettare prodotti simili, anche se molto inferiori, per intervallare una rilettura alla successiva. Invece mi sorprende di più che non vi sia stata una specie di rivolta popolare in seguito alla variazione del carattere dei personaggi principali.
Credo infatti che la Bebris non avesse idea di cosa poter scrivere sulla vita coniugare dei Darcy per mancanza di interesse nel tema. Ha così deciso di sparare i personaggi austeniani in un racconto più nelle sue corde. Che non è, ahinoi, niente di buono. Il buon Darcy viene così convertito in una specie di emulo di Sherlock Holmes, incapacitato a raggiungere il suo modello per evidenti limiti nell'osservare e nell'indurre qualcosa di valido. Lizzy, fresca signora Darcy, assume venature paranormali, sente le voci, vede e fa cose che agli altri sono precluse, insomma, una pazza.
La narrativa sentimentale viene così adattata per seguire, piuttosto blandamente invero, i canoni di una investigazione vagamente in uno stile Sherlockiano. Lentamente ma inesorabilmente vengono inseriti elementi occultistici, spiritisti, fino a giungere ad un finale che sembra estratto non so bene se da Il signore degli anelli o dalla saga di Harry Potter.
Non penso che la Bebris avesse intenzione di fare un qualsiasi punto con questo romanzo (°), quello che ho ricavato dalla lettura è una rivisitazione in chiave sbarellata dell'idea austeniana della non contrapposizione ma completamento tra ragione e sentimento. Qui, infatti, Elizabeth contrappone alle ragioni della testa non quelle del cuore, quanto quelle di insondabili energie new age.
(*) Dal risvolto di copertina si evince che prima di questo colpo fortunato ha scritto su giornali, insegnato inglese, e fatto l'editor per una collana fantasy.
(**) Anche queste notizie riportate nel risvolto di copertina.
(***) O per meglio dire lettrici, visto che la Austen ha un successo molto più marcato nel campo femminile.
(°) Oltre agli aspetti prettamente commerciali, intendo.
giovedì 29 giugno 2017
martedì 11 aprile 2017
I bastardi di Pizzofalcone - Maurizio De Giovanni (2013)
Mia prima lettura di qualcosa firmato da questo autore. Sequel de Il metodo del coccodrillo (*), in cui viene introdotto il personaggio dell'ispettore Lojacono che qui si prende il posto da protagonista all'interno di un eterogeneo gruppo di strambi poliziotti.
L'evidente idea dell'autore è quella di puntare alla letteratura seriale in stile 87° distretto (**) con uno stile di scrittura facilmente trasponibile anche nella serialità televisiva. Come in effetti è successo.
Prima dell'inizio della storia, il commissariato napoletano di Pizzofalcone viene portato sull'orlo della chiusura da comportamenti poco ortodossi di alcuni suoi elementi (***). Un commissario capo, Luigi Palma, decide di giocare d'azzardo con la sua carriera e accettare la sfida di far riprendere quota a quella sede disagiata, su cui vengono fatti convergere, tanto per non farci mancare niente, gli scarti di tutti gli altri commissariati cittadini.
Palma si butta in questa situazione balenga anche perché conta molto su Lojacono, che ha visto in azione nel prequel, sa che ha una pessima nomea, ma da cui si aspetta faville. Che prontamente arrivano.
Il caso principale trattato nel libro è quella di una facoltosa signora, Cecilia de Santis, che viene uccisa con un colpo di boule de neige alla testa. Considerando che ella era una accanita collezionista delle suddette brutture, verrebbe da concedere almeno parziali attenuanti a chi l'ha fatta fuori. Il problema è capire chi sia stato costui. L'indiziato principale è ovviamente il marito, un parvenu, traditore abituale, disegnato anche in modo da renderlo persino più antipatico di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Ma non sarà una soluzione troppo facile?
Ci sono poi un altro paio di casi che servono più che altro ad aumentare la dose di colore locale. Uno si conclude lasciando un pugno di mosche in mano agli investigatori, l'altro sembra promettere sviluppi interessanti (°) nei prossimi episodi della serie.
Scrittura molto scorrevole, simpatica ambientazione che non scade nel macchiettistico. Non ho perso tempo a cercare di capire chi fosse il colpevole, ma credo che, impegnandosi, il lettore possa arrivare a capirlo anche prima del Lojacono. Il caso non è, a mio avviso, tra i più ragionevoli, ma è tutto sommato accettabile.
Ci sono alcuni punti negativi, che però non sono tali da spingermi a sconsigliare la lettura. In particolare, pur essendo complessivamente ben narrato, i dialoghi mi hanno fatto più volte cadere le braccia. Troppo lunghi, troppo esplicativi, poco calzanti con l'immagine del personaggio.
Lo spiegone finale tende al terribile. Troppo lungo, presentato come confessione di chi ha compiuto l'atto, mi ha annoiato. Meglio sarebbe stato farci seguire, almeno parzialmente, la parte finale dell'indagine in cui si scoprivano i dettagli che confermano a Lojacono la sua ipotesi.
Mi ha lasciato qualche dubbio anche la composizione della squadra di Pizzofalcone. In teoria dovrebbe trattarsi della feccia della polizia napoletana, in pratica si tratta di personaggi piuttosto peculiari, magari anche spiacevoli da avere come colleghi, ma non sono poi così male. Strano che non ci sia tra di loro nemmeno un soggetto veramente insopportabile.
Simpatico il finale, un colpo di scena che poco ha che fare con le indagini ma che mi ha fatto ridere di gusto.
(*) Ripetutamente citato nel corso dell'azione, quasi come se il De Giovanni approfitti dello spazio per pubblicizzare il suo lavoro precedente.
(**) Ed McBain viene giustamente indicato dalle fonti di riferimento nelle note dell'autore.
(***) La premessa è la parte meno credibile di tutta la storia. Spero che il De Giovanni abbia avuto modo nei sequel di buttar lì che questo fosse solo un pretesto. Ci vedrei bene, che so, magari una qualche squallida lotta intestina tra commissariati cittadini.
(°) Anche se in realtà non mi sembra avere abbastanza forza per ambire a diventare un futuro caso principale.
L'evidente idea dell'autore è quella di puntare alla letteratura seriale in stile 87° distretto (**) con uno stile di scrittura facilmente trasponibile anche nella serialità televisiva. Come in effetti è successo.
Prima dell'inizio della storia, il commissariato napoletano di Pizzofalcone viene portato sull'orlo della chiusura da comportamenti poco ortodossi di alcuni suoi elementi (***). Un commissario capo, Luigi Palma, decide di giocare d'azzardo con la sua carriera e accettare la sfida di far riprendere quota a quella sede disagiata, su cui vengono fatti convergere, tanto per non farci mancare niente, gli scarti di tutti gli altri commissariati cittadini.
Palma si butta in questa situazione balenga anche perché conta molto su Lojacono, che ha visto in azione nel prequel, sa che ha una pessima nomea, ma da cui si aspetta faville. Che prontamente arrivano.
Il caso principale trattato nel libro è quella di una facoltosa signora, Cecilia de Santis, che viene uccisa con un colpo di boule de neige alla testa. Considerando che ella era una accanita collezionista delle suddette brutture, verrebbe da concedere almeno parziali attenuanti a chi l'ha fatta fuori. Il problema è capire chi sia stato costui. L'indiziato principale è ovviamente il marito, un parvenu, traditore abituale, disegnato anche in modo da renderlo persino più antipatico di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Ma non sarà una soluzione troppo facile?
Ci sono poi un altro paio di casi che servono più che altro ad aumentare la dose di colore locale. Uno si conclude lasciando un pugno di mosche in mano agli investigatori, l'altro sembra promettere sviluppi interessanti (°) nei prossimi episodi della serie.
Scrittura molto scorrevole, simpatica ambientazione che non scade nel macchiettistico. Non ho perso tempo a cercare di capire chi fosse il colpevole, ma credo che, impegnandosi, il lettore possa arrivare a capirlo anche prima del Lojacono. Il caso non è, a mio avviso, tra i più ragionevoli, ma è tutto sommato accettabile.
Ci sono alcuni punti negativi, che però non sono tali da spingermi a sconsigliare la lettura. In particolare, pur essendo complessivamente ben narrato, i dialoghi mi hanno fatto più volte cadere le braccia. Troppo lunghi, troppo esplicativi, poco calzanti con l'immagine del personaggio.
Lo spiegone finale tende al terribile. Troppo lungo, presentato come confessione di chi ha compiuto l'atto, mi ha annoiato. Meglio sarebbe stato farci seguire, almeno parzialmente, la parte finale dell'indagine in cui si scoprivano i dettagli che confermano a Lojacono la sua ipotesi.
Mi ha lasciato qualche dubbio anche la composizione della squadra di Pizzofalcone. In teoria dovrebbe trattarsi della feccia della polizia napoletana, in pratica si tratta di personaggi piuttosto peculiari, magari anche spiacevoli da avere come colleghi, ma non sono poi così male. Strano che non ci sia tra di loro nemmeno un soggetto veramente insopportabile.
Simpatico il finale, un colpo di scena che poco ha che fare con le indagini ma che mi ha fatto ridere di gusto.
(*) Ripetutamente citato nel corso dell'azione, quasi come se il De Giovanni approfitti dello spazio per pubblicizzare il suo lavoro precedente.
(**) Ed McBain viene giustamente indicato dalle fonti di riferimento nelle note dell'autore.
(***) La premessa è la parte meno credibile di tutta la storia. Spero che il De Giovanni abbia avuto modo nei sequel di buttar lì che questo fosse solo un pretesto. Ci vedrei bene, che so, magari una qualche squallida lotta intestina tra commissariati cittadini.
(°) Anche se in realtà non mi sembra avere abbastanza forza per ambire a diventare un futuro caso principale.
lunedì 27 febbraio 2017
La Agatha Raisin di M.C. Beaton
Mi sono appena letto il sedicesimo episodio della seria dedicata da M.C. Beaton alla sua provetta investigatrice Agatha Raisin (1992, ...). Non mi ha fatto venire voglia di continuare la lettura. Una mezza curiosità sulla trasposizione televisiva m'è però venuta. Senza però nessun impegno.
Beaton è uno degli pseudonimi usati da Marion Chesney, il cui nome attuale sarebbe Marion Gibbons, ma non usa il cognome del marito per la sua attività di scrittrice, bensì una variante del suo cognome da nubile, McChesney. Prima di leggere Agatha Raisin e il modello di virtù (2005), nulla avevo letto di lei, in nessuna delle sue varianti. Nonostante che la signora, ormai ottantenne, sia piuttosto prolifica.
Pagato il pedaggio alla Christie con il nome della protagonista della serie, lo sviluppo del racconto segue logiche sue, piuttosto divertenti. Abbiamo infatti a che fare con una cinquantenne poco rassegnata all'età non proprio freschissima, che ha lasciato un lavoro londinese ad alta tensione per ritirarsi nella campagna inglese, dove ha abbracciato la professione investigativa, pur essendo decisamente a digiuno delle cose del mestiere.
Purtroppo lo sviluppo dei personaggi lascia a desiderare, tutti piuttosto monodimensionali e dai comportamenti spesso inspiegabili e, quel che peggio, inspiegati.
Avendolo letto nella traduzione italiana di Marina Morpurgo, non sono certo se le perplessità che mi sono nate sull'uso del linguaggio in questo romanzo siano da attribuirsi tutte all'autrice. Credo però che anche la traduttrice abbia le sue responsabilità. Più di una volta ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad una versione troppo precipitosa di un testo inglese.
Di sicuro responsabilità dell'autrice la chiusura dell'indagine, precipitosa e resa con un improponibile doppio spiegone, con elementi della soluzione che vengono ripetuti verbatim pochi paragrafi di distanza.
Questa strana dissonanza tra l'anima della storia, che è tutto sommato piacevole, e la sua narrazione, decisamente sotto standard, e a tratti decisamente indisponente, è la chiave del mio moderato interesse nel vedere come altri potrebbero rendere il racconto, magari usando un altro mezzo.
Beaton è uno degli pseudonimi usati da Marion Chesney, il cui nome attuale sarebbe Marion Gibbons, ma non usa il cognome del marito per la sua attività di scrittrice, bensì una variante del suo cognome da nubile, McChesney. Prima di leggere Agatha Raisin e il modello di virtù (2005), nulla avevo letto di lei, in nessuna delle sue varianti. Nonostante che la signora, ormai ottantenne, sia piuttosto prolifica.
Pagato il pedaggio alla Christie con il nome della protagonista della serie, lo sviluppo del racconto segue logiche sue, piuttosto divertenti. Abbiamo infatti a che fare con una cinquantenne poco rassegnata all'età non proprio freschissima, che ha lasciato un lavoro londinese ad alta tensione per ritirarsi nella campagna inglese, dove ha abbracciato la professione investigativa, pur essendo decisamente a digiuno delle cose del mestiere.
Purtroppo lo sviluppo dei personaggi lascia a desiderare, tutti piuttosto monodimensionali e dai comportamenti spesso inspiegabili e, quel che peggio, inspiegati.
Avendolo letto nella traduzione italiana di Marina Morpurgo, non sono certo se le perplessità che mi sono nate sull'uso del linguaggio in questo romanzo siano da attribuirsi tutte all'autrice. Credo però che anche la traduttrice abbia le sue responsabilità. Più di una volta ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte ad una versione troppo precipitosa di un testo inglese.
Di sicuro responsabilità dell'autrice la chiusura dell'indagine, precipitosa e resa con un improponibile doppio spiegone, con elementi della soluzione che vengono ripetuti verbatim pochi paragrafi di distanza.
Questa strana dissonanza tra l'anima della storia, che è tutto sommato piacevole, e la sua narrazione, decisamente sotto standard, e a tratti decisamente indisponente, è la chiave del mio moderato interesse nel vedere come altri potrebbero rendere il racconto, magari usando un altro mezzo.
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